
26. L’Amazzonia dovrebbe essere anche un luogo di dialogo sociale, specialmente tra i diversi popoli originari, per trovare forme di comunione e di lotta congiunta. Tutti gli altri siamo chiamati a partecipare come “invitati” e a cercare con estremo rispetto vie d’incontro che arricchiscano l’Amazzonia. Ma se vogliamo dialogare, dovremmo farlo prima di tutto con gli ultimi. Essi non sono interlocutori qualsiasi, che bisogna convincere, e nemmeno un convitato in più ad una tavola di pari. Essi sono i principali interlocutori, dai quali anzitutto dobbiamo imparare, che dobbiamo ascoltare per un dovere di giustizia e ai quali dobbiamo chiedere permesso per poter presentare le nostre proposte. La loro parola, le loro speranze, i loro timori dovrebbero essere la voce più potente in qualsiasi tavolo di dialogo sull’Amazzonia; e la grande questione è: come loro stessi immaginano il buon vivere per sé stessi e i loro discendenti?
27. Il dialogo non solo deve privilegiare la scelta preferenziale per la difesa dei poveri, degli emarginati e degli esclusi, ma li considera come protagonisti. Si tratta di riconoscere l’altro e di apprezzarlo “come altro”, con la sua sensibilità, le sue scelte più personali, il suo modo di vivere e di lavorare. Altrimenti il risultato sarà, come sempre, «un progetto di pochi indirizzato a pochi», quando non «un consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice». Se questo accade, «è necessaria una voce profetica» e come cristiani siamo chiamati a farla sentire.